La storia dei Darkness è la storia di alcuni grandi uomini che, contro ogni previsione, si sono assicurati una vittoria nel rock’n’roll, hanno strappato con successo una sconfitta temporanea dalle fauci di quella vittoria, solo per poi risorgere recuperando di nuovo quella vittoria.
Gli ultimi rocker, nei primi anni del secolo attuale, riuscivano a distinguersi come dei Neanderthal in un supermercato, aggrappandosi all’antiquata nozione che vuole il rock’n’roll come qualcosa di rumoroso, grezzo.
Dopo aver cambiato il nome del progetto da Empire – un presagio di future conquiste – i loro feroci spettacoli dal vivo generarono una fanbase fanatica/limitatamente demenziale che permise loro di raggiungere il sold out al London Astoria prima ancora di avere il tempo di avvicinare la penna a un contratto. A questo proposito, non si può dire ci sia stata una guerra di offerte per il loro John Hancocks, e certi membri del quarto potere hanno guardato con sospetto la band, ma se ricordate le vecchie lezioni di storia, saprete che anche a Gesù fu stato dato del filo da torcere. Il loro debutto, Permission To Land, quando atterrò, ottenne una lunga residenza fra i primi posti delle classifiche, vendendo oltre 1,5 milioni di copie solo nel Regno Unito. Qualcosa che è noto nel “business” comeun quadruplo platino.
La durata dell’album fu notevolmente prolungata dall’uscita del più grande singolo di tutti i tempi, ‘I Believe In A Thing Called Love’, nel settembre del 2003, che vendette anche più di mezzo milione di copie negli Stati Uniti d’America.
Ci furono i BRIT awards, Kerrang Awards, persino Ivor Novellos. Ci fu un secondo, sottovalutatoalbum, One Way Ticket To Hell… And Back! Era una gloriosa belle époque in cui vivere ma, ed è una storia vecchia come il mondo, alcuni membri si stavano divertendo un po’ troppo, e tutto ebbe una fine vergognosa. Come Icaro, avevano volato troppo vicino al sole. Come disse memorabilmente il celebre filosofo/headbanger Lao Tzu, La luce che arde col doppio dello splendore brucia per metà tempo.
Gli storici del rock ora si riferiscono al periodo sterile tra il 2006 e il 2011 come l’età oscura del rock, o l’inverno nucleare del rock, costretti, come i credenti, ad adeguarsi a una dieta striminzita e insufficiente. I boccali sono stati alzati con tristezza nelle birrerie di tutto il paese, mentre venivano ricordati i bei tempi andati e si piangeva su ciò che era stato perso. Infine, la pietra fu rimossa e i nostri salvatori emersero dalla tomba per annunciare i loro show di reunion.
Due album videro la luce, Hot Cakes e l’accuratamente intitolato Last Of Our Kind, contenente magnifici – esatto, magnifici – pezzi come ‘Nothin’s Gonna Stop Us’, ‘With A Woman’, ‘Barbarian’ e la gloriosa ‘Open Fire’.
Guardateli, voi potenti, e disperate. Il bel Justin Hawkins che canta in prima linea, l’altrettanto bello ‘Farmer’ Dan Hawkins alla chitarra ritmica elettrica, il più grande scozzese vivente del mondoFrankie Poullain, al basso della Thunderbird, e per ultimo, e sicuramente non meno importante,Rufus Taylor, che batte i tamburi come se parlassero male di sua sorella. Con il massimo rispetto per gli ex membri che ringraziamo per il loro servizio, questa è la formazione definitiva dei Darkness.
E ora c’è un nuovo disco, MotorHeart. Dal sex boogie di ‘You Don’t Have To Be Crazy About Me’, passando per ‘Eastbound’ e la sbruffona ‘It’s Love Jim’, fino alla sensibile quanto un masso che cade, ‘Jussy’s Girl’.
E poi la già immortale “The Power And Glory Of Love”, che sicuramente troverà il suo posto nell’inevitabile Greatest Hits Darkness, raccolta che ancora non è stata pubblicata per paura che colpisca la terra come una meteora, mandando l’umanità a vagare impotente per lo spazio, così come fecero i nostri antecedenti dinosauri.
I potenti Darkness non hanno mai avuto paura di un cliché, infatti hanno fatto carriera abbracciando tali tropi e motivi, e per molti, MotorHeart è davvero il loro miglior lavoro registrato dai tempi diPermission To Land.
Niente – a parte forse per un’altra catastrofe globale – li fermerà.